fonte: cinematografo.it |
Cari lettori, per una volta, il nostro pezzo di oggi è un plauso, perché dopo un tempo che ci sembra infinito, vediamo chiaramente un cambiamento all'interno dell'azienda cinematografica italiana.
Nei primi mesi di questo 2016, sono state distribuite nelle nostre sale tre pellicole italiane che non esitiamo a definire dei piccoli gioielli: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, Lo chiamavano Jeeg Robot dell'esordiente Gabriele Mainetti e Veloce come il vento di Matteo Rovere. Vediamo perché abbiamo in così grande considerazione questi film.
Partiamo da Perfetti sconosciuti, uscito in sala nel periodo di San Valentino. E' però questo il film "anti-san valentiniano" per eccellenza. Come più o meno tutti saprete ormai, viene narrata la storia di tre coppie più un amico che si ritrovano per una cena; all'improvviso una di loro propone un gioco che consiste nel condividere con i presenti ogni messaggio, chiamata o WhatsApp per tutta la serata; ovviamente non c'è nessuno che non abbia i suoi bravi scheletri nell'armadio che puntualmente saranno svelati.
Cominciamo dicendo che tra i tre film che abbiamo citato, questo è il meno originale, quanto meno rispetto alla struttura e alla messa in scena. E' un classico kammerspiel, cinema da camera, sceneggiatura costruita interamente sui dialoghi e azione che si dipana totalmente (o quasi) in interni. E per la verità in Italia di pellicole con questo taglio ne abbiamo viste parecchie, anche recentemente; basti pensare a due titoli addirittura del 2015: Il nome del figlio di Francesca Archibugi (remake del transalpino Cena tra amici del 2012) e Dobbiamo parlare di Sergio Rubini.
Che cosa allora pone Perfetti sconosciuti un gradino sopra gli altri? Innanzitutto il ritmo che Genovese dà alla sua regia. Si sviluppa in una sorta di climax di montaggio e di recitazione man mano che i segreti e i sotterfugi dei vari personaggi vengono a galla. Il film diventa quasi un thriller, con lo spettatore che è inchiodato alla poltroncina senza possibilità di distrazione.
Genovese poi azzecca in pieno la scelta degli attori: va sul sicuro puntando sul grande talento di Valerio Mastandrea (troppo spesso sottovalutato) e di Alba Rohrwacher (forse la miglior attrice italiana del momento). Si porta dietro il fido Marco Giallini, ormai tra i protagonisti (positivi) del cinema italico di questi ultimi anni, e costruisce un ottimo (ma viscidissimo) personaggio sul buon caratterista Edoardo Leo, che dà il meglio. Le controparti femminili Anna Foglietta e Kasia Smutniak, l'ideatrice del gioco "mortale", spesso attrici solari, sono al contrario brave a tratteggiare dei personaggi profondamente negativi, che nascondono perversioni sessuali (andare in giro senza mutandine) e relazioni extra-coniugali assortite.
Il colpo di genio è però la splendida interpretazione di Giuseppe Battiston, il grillo parlante del gruppo. E' lui a sviscerare la teoria che sta alla base del film (la dipendenza totale dalla tecnologia, semplificando) e a lui è riservata l'ironica e perfetta scena finale. Grande passo avanti per Genovese, dopo titoli dimenticabili come Immaturi, e speriamo che si confermerà anche in futuro.
La sorpresa più grande è però senza dubbio Lo chiamavano Jeeg Robot, scritto e diretto dall'attore e debuttante regista Gabriele Mainetti. Si tratta del secondo esperimento tentato dal cinema di casa nostra col filone super-eroistico imperante degli ultimi anni (chissà che non approfondiremo l'argomento...), dopo il quasi fallimentare Il ragazzo invisibile di un guru come Gabriele Salvatores (cinematograficamente e al botteghino). E questa volta il risultato è sbalorditivo.
E' la storia di Enzo Ceccotti, un piccolo delinquente di borgata, incarnato da Claudio Santamaria. Durante una fuga si nasconde nelle acque del Tevere e, una volta uscitone, si ritrova dotato di una forza impressionante. Lì cominciano le sue disavventure per sventare le trame del boss borgataro di Tor Bella Monaca, Fabio Cannizzaro alias Zingaro, un eccezionale Luca Marinelli, che si conferma l'attore italiano più interessante di questa nuova generazione, anche per la sua partecipazione al magnifico Non essere cattivo, ultimo film del compianto Claudio Caligari.
Stupisce poi la protagonista femminile, Alessia, che ha il volto dell'ex concorrente del Grande Fratello Ilenia Pastorelli, al suo esordio. In barba ai pregiudizi, l'attrice romana costruisce un personaggio potentissimo, capace di enormi doti empatiche nei confronti dello spettatore. Appassionatissima del vecchio cartone giapponese, è lei che crede di rivedere il suo eroe Jeeg Robot/Hiroshi Shiba in Enzo (da qui il titolo del film); ed è sempre attraverso Alessia che dovrà passare la redenzione e la finale catarsi del protagonista. Non ci dilunghiamo più di tanto su questo film, vi accorgerete guardandolo che merita tutta l'attenzione che ha avuto; se ve lo siete persi a febbraio, niente paura: proprio da oggi viene ridistribuito in sala. Correte!
Chiudiamo con Veloce come il vento, di Matteo Rovere, da circa un paio di settimane nei cinema. In questo caso si parla di cinema su strada, ambientato nel mondo delle corse. Giulia De Martino, interpretata dalla giovane e talentuosa Matilda De Angelis, è una giovane pilota che partecipa al campionato italiano GT. Dopo la tragica morte per infarto del padre, si ritrova in seri guai economici ed è costretta a vincere il titolo per salvare la propria casa, che il genitore aveva utilizzato come garanzia per alcuni prestiti concessigli dal proprietario di un team rivale, Minotti, e il suo fratellino, che altrimenti finirebbe in affidamento.
La morte del padre riporta a casa il fratello Loris, un inedito e istrionico Stefano Accorsi, ex pilota prodigio caduto in disgrazia e ora tossicodipendente. Dopo diverse iniziali incomprensioni, Giulia accetta di farsi "allenare" da Loris, che avrà la sua occasione di riscatto.
E' in questo senso una classica parabola di redenzione sportiva (ispirata alla storia vera del rallista Carlo Capone), ma che evita molti dei cliché tipici del genere. La sceneggiatura è solida, e costruisce un intreccio non banale, che concede il giusto spazio alle scene in pista, girate con ottimo stile da Rovere, senza però rinunciare a un importante approfondimento psicologico dei personaggi. Non ci dimentichiamo che Giulia è minorenne, nonostante le si riversino addosso enormi responsabilità, e il film riesce nell'obiettivo di mostrare tanti piccoli dettagli che fanno chiaramente intuire come la ragazza in realtà sia ancora un'adolescente; il rapporto con Loris si evolve piano piano, bilanciando sapientemente dramma e ironia, ed è direttamente proporzionale ai miglioramenti al volante.
Notevoli poi alcuni scene "su strada": quelle in pista, ma anche e soprattutto uno splendido inseguimento in macchina per le strade di Bologna come non se vedevano forse dai tempi di La mala ordina di Fernando di Leo del 1973 (tra i migliori mai visti) e dei polizieschi di Umberto Lenzi.
Insomma noi vogliamo sinceramente consigliarvi di dare fiducia ai nuovi prodotti cinematografici italiani, spesso vittime di (spesso giusti) pregiudizi. Siamo sicuri che non ve ne pentirete e ci auguriamo che tutto ciò non sia un semplice caso, ma l'inizio di un grande rinnovamento innanzitutto ideologico della settima arte in Italia. E' questo che conta davvero: non tanto che questi film siano belli, ma che siano forieri di progetti totalmente innovativi per il nostro cinema, che sfondino gli stereotipi commedia caciarona/ dramma piagnone per aiutarci a diffondere i nostri lavori anche al di fuori del nostro amato Stivale.
Mente libera, occhi aperti
Lo Sciacallo, Marcus L.Mason