Gunnar Bjornstrand in una scena del film fonte: ivid.it |
Cari lettori, torniamo finalmente ad occuparci di uno degli ambiti artistici a noi più cari, il cinema. E tanto per andare sul sicuro, quello che vogliamo consigliarvi quest'oggi è un vero e proprio classico, un film di un regista che senza paura di smentita può essere annoverato tra i massimi esponenti mai esistiti della settima arte.
La pellicola in questione è del 1963, per la regia di Ingmar Bergman, e si tratta di Luci d'inverno.
Come d'abitudine un piccolo cenno introduttivo sul regista. Bergman nasce a Uppsala, in Svezia, il 14 luglio 1918, figlio di un pastore luterano, tratto distintivo che avrà una grande influenza sulla sua cinematografia. A causa dell'educazione severa e rigidissima che riceve, più volte in gioventù Bergman si ritrova a litigare con i genitori, fino a quando, a 18 anni, proprio dopo l'ennesima sfuriata, decide di andare a vivere da solo, e parte per Stoccolma. Qui, dopo un'infelice esperienza all'università, entra in contatto col mondo delle arti sceniche, principalmente teatro e cinema, entrambi fondamentali nel suo percorso professionale. Dirige una piccola compagnia filodrammatica studentesca, scrive i testi di alcuni drammi. Nel 1940, il Teatro dell'Opera lo promuove anche aiuto-regista.
Inizia a scrivere vorticosamente e compone in due anni, ben dodici drammi e un'opera lirica. Il passo dal teatro al cinema non è poi così lungo. Nel 1944 il regista Gustav Molander rimane molto colpito da una delle opere del giovane Bergman e insiste affinché venga adattata per il grande schermo e se ne tragga un film, Spasimo, che esce lo stesso anno, e a cui Bergman collabora come segretario di edizione. Debutterà dietro la macchina da presa due anni più tardi, con Crisi (1946).
Uno dei temi che più ha ossessionato Bergman durante tutta la sua vita è il suo rapporto conflittuale con la religione e, più nello specifico, con Dio. I suoi anni giovanili sono infatti contrassegnati da una continua ricerca della figura di Dio, nella quale Ingmar spera di trovare l'affetto e l'amore di cui sente un disperato bisogno, e che tra le mura domestiche non riesce a conquistarsi. Proprio per questo motivo si avvicina e si appassiona al cinema, che gli permette di rifugiarsi in una dimensione alternativa e ideale, che possa contrapporsi alla fredda e dura vita reale.
Bergman, nei primi anni Sessanta, ormai cineasta affermato, decide di dedicare un trittico di film a questo vuoto esistenziale che si porta dentro sin dall'infanzia e dalla pubertà. Gira pertanto Come in uno specchio (1961), Luci d'inverno (1963) e Il silenzio (1963). Compongono la trilogia, dalla denominazione eloquente, "del silenzio di Dio".
Noi abbiamo deciso di concentrarci sulla seconda parte della trilogia, Luci d'inverno. La vicenda si svolge interamente nell'arco di una sola giornata e vede come protagonista il pastore luterano Tomas Ericsson, interpretato da uno degli attori-feticcio di Bergman, Gunnar Bjornstrand, che attraversa una profonda crisi esistenziale e di fede, in seguito alla morte dell'amata moglie. Gli ruotano intorno due importanti figure: Marta, una maestra elementare infatuata di Tomas, incarnata dalla splendida Ingrid Thulin, e il pescatore Jonas Persson, un giovane Max Von Sydow, attanagliato da un profondo malessere interiore dovuto alla paura di una guerra nucleare, o più banalmente dalla responsabilità connessa alla nascita ormai vicina di un terzo figlio. Non vogliamo anticipare qui tutte le direzioni che la situazione prenderà, per non rovinarvi la visione.
Il pastore Tomas avrà però modo di rendersi effettivamente conto di non essere più in grado di aiutare i suoi fedeli, e questo perché è lui in prima persona ad avere grosso bisogno di aiuto. Ciò che più lo spaventa non è il non avere più fede in Dio, ma non avere più fede nella bontà, benevolenza e misericordia di quest'ultimo. L'insicurezza la fa ormai da padrona in Tomas, che aveva consacrato la sua intera esistenza all'amore per la sua donna; morta lei, l'uomo cade in un vortice di inutilità dal quale capisce di non riuscire a sottrarsi. Il finale enigmatico non fa che accentuare il senso di incertezza e dubbio che aleggia per tutto il film. Bergman la rappresenta attraverso la meravigliosa fotografia di Sven Nykvist, che contrappone in maniera eccezionale la luce sui volti dei personaggi, che in fondo si vogliono credere toccati o protetti da una mano superiore, a un paesaggio nordico invernale ricoperto da una spessa e indecifrabile coltre di nubi che quella stessa mano superiore non riesce a scalfire.
Insomma, Bergman con questo film si propone di mettere in scena gli eterni conflitti che accompagnano fin dalla notte dei tempi l'uomo nella sua relazione con il divino: e fa capire come anche chi occupa una carica riservata a chi quei dubbi li ha chiariti fino in fondo, può ricadere nelle stesse contraddizioni, esternando una sensibilità e una fragilità che, spesso fatichiamo ad ammetterlo, sono parte integrante del nostro essere. Bergman lo ha capito, e non si azzarda per questo motivo a sputare sentenze o ad emettere giudizi manichei o altezzosi, ma si limita a scavare fin nei più profondi recessi dell'anima, come solo lui (davvero) era in grado di fare.
E' evidente che Luci d'inverno non è un film semplice, che si può guardare sgranocchiando pop-corn e messaggiando su WhatsApp. Richiede un impegno e uno sforzo mentale non indifferente, come ogni opera d'arte di vero valore del resto; contiamo che gli dedicherete l'attenzione che merita, perché siamo davvero dalle parti del capolavoro. Per chi non arriva a comprenderne la potenza evocativa e l'intensità emozionale, ci sono sempre i libri degli ottimi Nicholas Sparks o Federico Moccia. A voi la scelta.
Mente libera, occhi aperti
Lo Sciacallo, Marcus L.Mason