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giovedì 16 febbraio 2017

QUANDO LA MUSICA E' ARTE: "ELEANOR RIGBY", DEI BEATLES

                                          Stata dedicata ad Eleanor Rigby, fonte: Wikipedia


Cari amici, dopo tanto tempo, riprendiamo la nostra rubrica musicale. Quest'oggi abbiamo deciso di analizzare un brano specifico di una band che ha fatto storia: i Beatles. Il brano che abbiamo scelto si intitola "Eleanor Rigby" ed  è contenuto nell'album "Revolver", del 1966. Non abbiamo scelto a caso questa canzone: il pezzo, infatti, fu scritto quasi interamente da Paul McCartney, di cui vi abbiamo già parlato quando abbiamo intervistato Glauco Cartocci in merito alla vicenda della presunta morte del bassista.

A nostro modo di vedere, si tratta della più bella composizione di McCartney: la melodia rispecchia pienamente lo stile di Paul che, a differenza di Lennon ed Harrison, respinge l'influenza del blues e del rock americano preferendo composizioni più melodiche. La canzone è famosa per l'ottetto composto da quattro violini, due viole e due violoncelli (all'arrangiamento McCartney venne aiutato dal produttore George Martin) accompagnato dalla voce solista di Paul e dai cori di Lennon e Harrison. Come dichiarato da Lennon, la struttura orchestrale fu decisa da McCartney: a quell'epoca, il bassista dei Fab Four era fidanzato con Jane Asher, un'appassionata sfegatata di Antonio Vivaldi. La composizione, infatti, si rifà allo stile del grande compositore del tardo barocco veneziano (non a caso la canzone è classificata all'interno del filone del baroque pop).

Un altro elemento che determinò il successo di questa canzone fu il testo: secondo il critico musicale Ian MacDonald, "la canzone fu uno shock per gli ascoltatori di musica pop dell'epoca". Il testo, infatti, parla di solitudine e depressione: argomenti che poco si addicono alla musica puramente commerciale. Il testo inizia con una riflessione: "Look at all the lonely people" (Guarda tutte le persone sole). I Beatles, ma qui sarebbe più corretto citare McCartney, focalizzano l'attenzione attorno a due soggetti: Eleanor Rigby ed un sacerdote, padre McKenzie. Eleanor Rigby non è un nome inventato: questa ragazza, infatti, è realmente esistita ed è sepolta nel cimitero di St. Peter. La donna è intenta a raccogliere del riso in una chiesa dove si è appena celebrato un matrimonio: la ragazza ha grandi speranze e attende, invano, l'arrivo di qualcuno che la porti via con sé. L'immagine della chiesa (vuota), evoca uno stato di profonda solitudine.

Dall'altra parte, invece, c'è un prete, McKenzie, che legge un sermone che nessuno ascolterà. La ragazza si trova nella stessa abbazia, ma i due non si incontrano, né si parlano: tra di loro c'è una sorta di muro invalicabile che ne preclude il contatto umano. L'epilogo, poi, è quanto di più triste possa accadere: la ragazza finisce per morire nella medesima chiesa e a celebrare la cerimonia funebre, manco a dirlo, sarà proprio padre McKenzie, in un funerale al quale nessuno parteciperà; i sostenitori del PID, vedono in questa frase un chiaro riferimento al presunto funerale di Paul, al quale nessuno, a parte i "tre" membri viventi della band, ha preso parte.

Di seguito vi proponiamo il testo tradotto dall'inglese e la canzone. Buon ascolto.


ELEANOR RIGBY

Ah, guarda tutte quelle persone che restano da sole
Ah, guarda tutte quelle persone che restano da sole

Eleanor Rigby raccoglie il riso
che è stato lanciato a un matrimonio.
Vive in un sogno.
Aspetta alla finestra,
ha lo sguardo che di solito conserva in una brocca dalla porta.
Per chi è?


Tutte quelle persone che restano da sole
Da dove vengono?
Tutte quelle persone che restano da sole
A che terra appartengono?

Padre McKenzie sta scrivendo le parole
di un sermone che nessuno ascolterà
Nessuno viene qui (vicino).
Guardalo lavorare.
Rammenda i suoi calzini in una notte in cui non c’'è nessuno.
Cos’'è che gli interessa?

Tutte quelle persone che restano da sole
Da dove vengono?
Tutte quelle persone che restano da sole
A che terra appartengono?



Ah, guarda tutte quelle persone che restano da sole
Ah, guarda tutte quelle persone che restano da sole

Eleanor Rigby è morta nella chiesa
ed è stata sepolta in lungo con su scritto il suo nome.
Nessuno è venuto (a vegliarla).
Padre McKenzie si pulisce
le mani sporche mentre cammina vicino alla tomba.
Nessuno fu salvato.

Tutte quelle persone che restano da sole
Da dove vengono?
Tutte quelle persone che restano da sole
A che terra appartengono?


                                          Fonte: Youtube, TheBeatlesVEVO


Mente libera, occhi aperti
                                          Lo Sciacallo, Marcus L. Mason

giovedì 9 febbraio 2017

ARRIVAL: LA FANTASCIENZA CHE ESPANDE LA SCIENZA


fonte: spietati.it

Cari lettori, si torna a parlare di cinema sulle pagine dello Sciacallo, e questa volta il film che intendiamo proporvi non è un cult, ma si tratta eccezionalmente di una pellicola uscita da poche settimane nelle sale italiane: si tratta di un film del 2016, per la regia di Denis Villeneuve, Arrival.

Come d'abitudine, una veloce introduzione sul regista in questione: Villeneuve nasce nel 1967 nel Québéc, regione francofona del Canada. Dopo qualche cortometraggio (punto di partenza per tantissimi registi importanti) esordisce nel lungo nel 1997 presentando al festival di Cannes Un 32 aout sur terre. Negli anni immediatamente successivi gira Maelstrom (2000) e un'altra serie di corti, vincendo anche diversi premi in Canada per questi lavori. Torna al cinema nel 2009 con Polytechnique, altra produzione canadese incentrata su un episodio di violenza avvenuto a Montréal nel 1989, allorché lo studente venticinquenne Marc Lépine uccide ben 14 studentesse all'interno del Politecnico prima di suicidarsi. Una sorta di Columbine canadese, precursore di ciò che avverrà per mano di Eric Harris e Dylan Klebold dieci anni dopo.


Il 2010 è un anno fondamentale per Villeneuve, poiché gira il film che inizierà a far circolare il suo nome a livello internazionale: parliamo de La donna che canta, incentrato sui tragici avvenimenti della guerra civile del Libano, combattutasi fra il 1975 e il 1990.
Grazie al successo di questo film, Villeneuve viene coinvolto in produzioni sempre più importanti, con sensibile aumento del budget e la possibilità di dirigere attori di fama. L'esordio "americano" del regista è Prisoners, del 2013, magnifico noir "nevoso" interpretato da Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal. Non vi diciamo nulla della trama se non l'avete visto, ma vi suggeriamo caldamente di recuperarlo, trattandosi di un film davvero notevole.
Dopo un breve ritorno in Canada, dove gira Enemy (sempre con Gyllenhaal), adattamento del romanzo L'uomo duplicato, di José Saramago, presenta al Festival di Cannes 2015 Sicario, altro thriller ambientato nel mondo del narcotraffico tra Stati Uniti e Messico; film semplicemente splendido, con dei tempi di suspence impeccabili e attori molto in palla: protagonisti sono Emily Blunt, Benicio del Toro (mostruoso) e Josh Brolin.

Veniamo finalmente al 2016, quando al Festival di Venezia presenta il suo ultimo lavoro, appunto Arrival, ispirato al racconto Storia della tua vita, a sua volta contenuto nell'antologia di racconti Storie della tua vita di Ted Chiang.
La trama è molto semplice: all'improvviso, dodici astronavi extraterrestri arrivano sulla Terra sbarcando in dodici punti differenti del globo; la linguista di fama mondiale Louise Banks, interpretata in maniera magistrale da Amy Adams (attrice che recentemente è apparsa nell'altrettanto significativo Animali notturni, di Tom Ford), viene immediatamente cooptata dal governo degli Stati Uniti insieme al matematico Ian Donnelly, che ha il volto di Jeremy Renner. Costoro hanno il compito di provare a trovare la chiave per poter comunicare con queste creature, gli Eptapodi, che si esprimono attraverso un complesso linguaggio fatto di cerchi. Nel momento in cui si scoprirà la ragione del loro viaggio, le vite di tutti i coinvolti subiranno forti contraccolpi.

Possiamo tentare un'analisi della pellicola solo per sommi capi, dal momento che approfondire troppo significherebbe rovinare la visione a tutti coloro che il film se lo sono persi; gli spoiler sarebbero davvero inevitabili.
Partiamo dunque dal comparto tecnico: è chiaro che Villeneuve ha acquisito negli anni una spaventosa consapevolezza di se stesso e della macchina da presa; gira in maniera semplicemente sublime, con i suoi tipici movimenti di macchina sinuosi e avvolgenti, ma mai buttati a caso. Esattamente come nei precedenti Prisoners e Sicario si concede lunghi piani sequenza che mai infastidiscono, ma che al contrario conferiscono al film una continuità narrativa veramente invidiabile. La stessa fotografia non si discosta molto da quella degli altri lavori del regista; predilige dei toni molto freddi e algidi, il grigio, l'azzurro, il bianco, che fanno da perfetta cornice a un mondo, quello della protagonista, appiattito e apparentemente vuoto: nella prima scena del film, infatti, scopriamo che Louise ha subito una pesante perdita, che sarà molto importante nell'evolversi della vicenda.
In generale, dal punto di vista visivo, Villeneuve azzecca il film su tutta la linea, perché anche i famosi "gusci", come vengono chiamate le astronavi a causa della loro forma, sono di notevole impatto, grazie a delle splendide riprese in campo largo, specialmente se si visiona la pellicola in sala. Ma il canadese è un regista molto ambizioso e come sempre non si limita ad un mero esercizio di stile, al fine di mostrarci la sua abilità di cineasta; il suo obiettivo, a parere di chi scrive pienamente raggiunto, è molto più sostanzioso di quanto non possa apparire ad un livello superficiale. Arrival abbraccia temi di grande rilevanza per l'uomo e come ogni grande opera d'arte non pretende di dare risposte, ma di porre domande fondamentali. Villeneuve, che per la prima volta si cimentava con lo sci-fi, confeziona un film che utilizza il genere e i suoi stilemi (le astronavi, gli alieni, il nostro incontro con loro) per parlare di noi, dell'uomo e dei più grandi dubbi che albergano nella sua anima; presenti sono i temi della morte, della perdita, dell'amore, della capacità di fare scelte pesanti e assumersene la responsabilità, della paura del diverso; se conoscete Villeneuve, nient'altro che la sua poetica, quella di un vero autore. 
Nonostante questo, il fil rouge che contraddistingue ogni livello di lettura del film è quello dell'importanza del tempo, e di come decidiamo di percepirlo ed utilizzarlo; ma qui veramente non possiamo andare oltre, ci dobbiamo mordere la lingua. Aggiungiamo solo che il titolo del post forse lo capirete meglio una volta visto il film.

Possiamo perdonare all'ottima sceneggiatura di Eric Heisserer qualche piccola sbavatura narrativa, che viene a nostro giudizio surclassata dalla potenza visiva ed emozionale messa in gioco da Villeneuve e dai suoi attori, tutti strepitosi.
C'è chi ha tacciato il film di retorica e presunzione: noi ci permettiamo di dissentire sottolineando come preferiamo di gran lunga qualcuno che abbia come modello e fonte di ispirazione 2001-Odissea nello spazio, piuttosto che Twilight o Colpa delle stelle. Come va di moda dire oggi, sono gusti.

Mente libera, occhi aperti
                                            Lo Sciacallo, Marcus L.Mason

lunedì 6 febbraio 2017

LA STRANA MORTE DI BRUCE LEE: UN GIALLO MAI RISOLTO

                                                         Fonte foto: Wikipedia

Cari amici lettori, scusateci il ritardo. Per farci perdonare, abbiamo deciso di tornare con un argomento che da sempre ci affascina e che riguarda la morte di un mito indiscusso delle arti marziali cinesi e del cinema orientale: ci riferiamo chiaramente a Bruce Jun Fan Lee, meglio noto al grande pubblico come Bruce Lee.

Nato nella Chinatown di San Francisco il 27 novembre del 1940 da una coppia originaria di Hong Kong (anche se la mamma era di discendenze euroasiatiche) e penultimo di cinque figli, fece ritorno con la famiglia nella città del "porto profumato" dopo soli tre mesi. Il suo carattere esuberante lo portò a confrontarsi con la malavita locale e, per difendersi, decise di apprendere le tecniche di Kung Fu iscrivendosi alla prestigiosa scuola di Wing Chun (uno stile di Kung Fu), sotto l'insegnamento del maestro Yip Man, considerato un eroe in Cina in virtù dei suoi insegnamenti che hanno permesso a milioni di cinesi di bloccare l'avanzata nipponica durante la seconda guerra sino-giapponese.

Nel 1959, all'età di diciotto anni, il padre di Lee decise di mandarlo a vivere negli Stati Uniti, dove conoscerà Linda Emery che sposerà nel 1964 e con la quale darà alla luce due figli: Brandon (1965) e Shannon Emery (1969). In ambito marziale, Lee era attratto da qualsiasi tipo di disciplina che riteneva utile per migliorare le proprie prestazioni: nel '58 vinse il titolo interscolastico di boxe, e in seguito decise di allargare gli orizzonti abbinando quanto appreso dalla nobile arte con qualche rudimento di scherma; Lee si sottoponeva a dure sessioni di allenamenti, arrivando ad utilizzare tecniche del culturismo. Un approccio maniacale alla disciplina, che lo avrebbe portato, in seguito, a elaborare un nuovo stile, il Jeet Kune Do. Nel '70, dopo un incidente occorso in allenamento, iniziò a dedicarsi anche alla spiritualità e alla filosofia, affascinato dagli scritti di Jiddu Krishnamurti.

Spesa questa parentesi introduttiva possiamo concentrarci sul lascito artistico di Lee e della sua morte accidentale, che forse tanto accidentale non fu. Chiunque abbia visto i suoi film, si sarà subito accorto degli enormi messaggi politici contenuti nelle pellicole. I temi più ricorrenti riguardano il patriottismo cinese, la denuncia delle ingiustizie compiute dai giapponesi ai danni del popolo cinese; inoltre, nelle sue opere, il popolo cinese prende conoscenza della propria condizione di schiavo e si unisce per ribellarsi, attraverso l'uso delle arti marziali, contro gli usurpatori nipponici. I protagonisti dimostrano che il Kung Fu ha la meglio sul Karate giapponese e che solo attraverso la lotta (l'uso della violenza come mezzo ultimo e necessario), il popolo può liberarsi dalle angherie e i soprusi attuati dai rivali giapponesi in territorio cinese. Ma la denuncia non prende di mira solo i giapponesi: in ogni film, infatti, è sempre presente la figura del cinese traditore, accomodante col potere giapponese.

Pellicole strepitose, opere miliari della storia del cinema, riconosciute anche da registi di fama internazionale come Quentin Tarantino, un fan dichiarato di Bruce Lee (basta vedere Kill Bill) e, in particolare, del regista dei suoi primi film, Lo Wei (1918-1996), una figura controversa che, secondo alcuni, sarebbe legata alla morte dell'attore di origini cinesi e tra non molto scoprirete perché.

Lo Wei, famoso regista cinese, diresse Bruce Lee in due pellicole: ne "Il furore della Cina colpisce ancora" (1971) e in "Dalla Cina con furore" (1972), un film straordinario, dedicato alla memoria di Huo Yuanjia, maestro cinese morto in circostanze sospette e di cui il film dà una sua versione dell'accaduto, prendendo spunto dalla versione popolare cinese che lo vuole ucciso per mano dei giapponesi. In seguito Lee fu diretto nel 1973 dal regista statunitense Robert Clouse ne "I tre dell'operazione Drago". Nel 1972 uscì "L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente", un film scritto, diretto e interpretato da Lee, che lanciò un allora esordiente Chuck Norris: un film in verità poco riuscito, almeno dal punto di vista artistico, se si esclude la scena finale in uno scenario mitologico come il Colosseo.

Bruce Lee muore ad Hong Kong il 20 luglio 1973, nella casa dell'attrice Betty Ting Pei, dopo aver ingerito una pillola di Equagesic per placare l'emicrania che lo aveva afflitto, morendo nel sonno. Correttamente, occorre riportare le testimonianze di numerosi attori presenti nel cast de I tre dell'operazione Drago, che raccontano di un improvviso malore che avrebbe colpito il giovane Lee durante le sessioni di doppiaggio del film: un attacco di febbre, vomito e convulsioni minò la vita di Bruce e solo una tempestiva somministrazione di mannitolo limitò l'edema cerebrale riducendo il gonfiore al cervello.

Cosa c'è dietro la morte dell'attore? Si tratta di morte accidentale o di omicidio? Per chi esclude la morte accidentale ci sono pochi dubbi: proprio a causa dei contenuti politici presenti nei suoi film, poco teneri nei confronti dei giapponesi, Lee sarebbe stato ucciso dalla Yakuza.

Ma questa tesi non convince pienamente. Un'altra pista, porta invece a un insospettabile: Lo Wei. Sul regista cinese giravano voci che lo vedevano implicato in affari che convolgevano le Triadi, le mafie cinesi. E' bene ricordare che il cinema di Hong Kong era interamente controllato dalla mala cinese. Non molti sanno che Bruce Lee ebbe una lite feroce con Lo Wei. Non si sa cosa si siano detti, ma c'è chi sospetta che Lee avesse minacciato il regista di denunciare il suo coinvolgimento nelle Triadi e il sistema. Oppure, possiamo immaginare che la lite avesse come contenuto la ripartizione dei guadagni. Ma si tratta come sempre solo di ipotesi.

Infine, c'è la sinistra profezia del padre dell'attore, che già nel 1935 aveva indicato con precisione la data della morte del figlio. Una profezia che si rivelò maledettamente esatta e che a noi de Lo Sciacallo fa pensare alle tante morti annunciate e calcolate con largo anticipo con matematica precisione dai Rosacroce. Senza contare poi la morte del figlio, morto in circostanze che definire sospette è un eufemismo: Brandon, infatti, morì esattamente con le medesime dinamiche del personaggio interpretato dal padre nel suo film postumo, "L'ultimo combattimento di Chen". Forse Brandon stava scoprendo la verità sulla morte del padre? Non lo sapremo mai, purtroppo.

Eppure gli indizi sono tanti, troppi. Concludiamo questo articolo invitandovi alla visione dei film sopracitati. Siamo certi che non ve ne pentirete.

Mente libera, occhi aperti
                                          Lo Sciacallo, Marcus L. Mason